Ho ritrovato delle foto dei Wretched da me scattate all’Helter Skelter a Milano nel 1986. Dei Wretched si è fatto un gran parlare negli ultimi anni, ma loro sono come scomparsi. La loro totale assenza (insieme alla loro importanza non solo musicale) ha contributo a creare una specie di mito. Non sarò certo io a volerne scriverne la storia (ci pensi qualcun altro, se ha la voglia e il coraggio). E nemmeno voglio parlare dei componenti che pure ho sempre stimato. Ma queste foto mi hanno fatto venire in mente le sensazioni che ho provato quella notte mentre li vedevo suonare. Solo questo voglio raccontare: cos’erano i Wretched per me in un determinato periodo della mia vita.
Ho visto almeno 15-20 concerti dei Wretched, più o meno da quando si sono formati, ma il periodo delle foto – a metà degli anni Ottanta – me lo ricordo bene. Non potrò mai dimenticare che, insieme ai Cheetah Chrome Motherfuckers, erano gli unici che mi facevano VERAMENTE venire la pelle d’oca. Non lo dico in senso metaforico: avevo la sensazione fisica sulle braccia. Uno potrà pensare che la faccio grossa, che racconto palle, che mitizzo il passato o che ero rinconglionito già allora. Ma era così: l’esperienza di un loro live in quel periodo era profonda. E lo si può vedere dalle facce e dall’atteggiamento del pubblico in queste foto. Pochi si agitano sotto il palco. La maggior parte è ferma come congelata. Nessuno scherza o parla. Era più che un concerto. Era una performance più vicina all’industrial che al punk o all’hardcore. Una specie di muro di rumore e urla. E tutto quel nero, dei vestiti, degli striscioni con la loro grafica precisa e dura, sempre con poca luce, sempre in sposti difficili (nelle foto siamo in uno squat senza finestre in pieno inverno). Secchi, senza fronzoli, austeri, minimali. Anche nei testi. Il tutto aumentava la drammaticità. Da quei concerti non uscivi divertito. Uscivi sconvolto, rimestato all’interno.